È nel gioco che l’essere umano esprime il massimo della sua intelligenza. Per gioco intendo quello dei bambini, fatto di curiosità, imprevisti e sorpresa. Play Factory è un luogo culturale dove gli incontri interpersonali e le relazioni con la materia trovano lo spazio essenziale del gioco, sviluppando conoscenze attive, esperienze e scoperte innovative (Isao Hosoe)
Il ‘trickster’ del design
Trickster in inglese può assumere il significato di “prestigiatore”. Nella sequenza iniziale di un lungometraggio del 2006, The Prestige, denso di magia che meraviglia, realizzato dal genio visionario di Christopher Nolan, Mr. Cutter (Michael Caine), uno scenografo e progettista esperto di illusioni, disvela la composizione propria di ogni numero di magia:
“Ogni numero di magia è composto da tre parti, o atti. La prima parte è chiamata ‘la promessa’. L’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: un mazzo di carte, un uccellino o un uomo. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo, di controllare che sia davvero reale… sì, inalterato, normale. […] Il secondo atto è chiamato ‘la svolta’: l’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ora voi state cercando il segreto ma non lo troverete perché in realtà non state realmente guardando, voi non volete saperlo. Ma ancora non applaudite, perché far sparire qualcosa non è sufficiente, bisogna anche farla riapparire. Ecco perché ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo ‘il prestigio’”.
In analogia con la magica invenzione dei processi di innovazione nel mondo del design, in cui il Trickster (nell’accezione di catalizzatore dinamico all’interno del binomio centro-periferia) Isao Hosoe, più filosofo che ingegnere e designer italo-giapponese, portò l’idea di “giocosità” anche negli ambienti di lavoro: perché intuì che nessuno sarebbe stato più relegato nell’immobilità incatenante di una scrivania e che le persone avevano bisogno e diritto di stare bene e divertirsi, non solo nel tempo libero: flessibilità, ergonomia e gioco alcune delle parole chiave del suo approccio.
Un grande Maestro dell’Industrial design che aveva aperto il suo interesse al Design d’Impresa, grazie al progetto Play Factory per il Gruppo Loccioni con l’idea di incentivare e diffondere la cultura dell’“agire creativo e giocoso”.
C’era una volta, serve una svolta: Play Factory
L’impresa marchigiana è fondata da Enrico Loccioni nel 1968. Inizialmente focalizzata sull’impiantistica elettrica, l’automazione industriale, negli anni ‘90 si trasforma in una knowledge industry e avvia progetti nei settori delle telecomunicazioni, dell’ICT e del monitoraggio ambientale, diventando una sorta di “sartoria tecnologica”.
Sollecitata dall’incontro, avvenuto nel 2005, con Isao Hosoe, l’azienda decide di ‘tramutarsi’ in una Play Factory, ampliando l’idea di innovazione: il gioco e le implicazioni, culturali e di processo, che vi sono correlate diventano elementi fondanti l’organizzazione. Il designer italo-giapponese ‘teletrasporta’ il design thinking all’interno dell’impresa, attraverso la riconfigurazione di alcune attività finalizzate a testare l’utilizzo di determinati strumenti nelle varie fasi progettuali: dalla generazione di idee all’esperienza del cliente. La dimensione pluriprospettica del gioco, anche per attività serie e non necessariamente di solo intrattenimento, è fondamentale in questa originale visione. La Play Factory non consiste solamente nel luogo in cui lavorare, ma assume le caratteristiche di uno spazio giocoso in cui poter esprimere le proprie idee e sviluppare il binomio identità personale e professionale.
Si infiltra progressivamente una cultura del lavoro basata sul gioco, sul divertimento, sulla passione e sulla bellezza; gli (attesi) imprevisti e le sorprese tipiche del gioco stimolano l’intelligenza e la creatività. La Play Factory diventa un ambiente in cui le persone generano soluzioni a problemi complessi, lavorando in squadra e assumendosi la responsabilità delle proprie scelte, possibilmente anche divertendosi; una nuova modalità di pensare e comunicare il lavoro dell’uomo che si astrae dalla materialità e dalla fisicità tipica dei posti di lavoro, per divenire espressione di personalità e di capacità di entrare in con-tatto e relazionarsi agli altri.
Grazie alle connessioni intergenerazionali di variegate professionalità si sviluppano saperi rinnovati, si approfondiscono temi attuali e rilevanti, si realizza innovazione non solo tecnologica, ma anche sociale (il gioco inteso come tecnologia sociale) e di significativa connettività con il territorio. La Play Factory rappresenta una rigenerata cultura delle organizzazioni del lavoro che incentiva la creatività, sollecita esperienze e scoperte innovative, nella cornice della valenza del gioco come perno facilitante.
Nel 2008, Isao Hosoe, realizza l’installazione giocosa “Pro-gettare”: una pedana da cui lanciare una pallina in un bacino di acqua assistita da un sistema di misurazione della parabola e della velocità. L’artefatto rappresenta lo spirito ludico della cultura dell’impresa e invita le persone a progettare il futuro. Nella sua visione la pallina è un’idea che, grazie all’energia impressa con il lancio, genera onde che si propagano nello spazio e nel tempo.
Isao inventa anche il gioco “Energia comportamentale”, che si ispira alla palla di carta della tradizione giapponese (kami fusen). Colpendola con vigore le si trasferisce energia, l’aria contenuta si scalda e la palla assume una forma rotonda; viceversa, in assenza di energia, l’aria si raffredda e la palla perde la forma sferica.
E, sempre nello stesso anno, con Lorenzo De Bartolomeis, in occasione del 40esimo anniversario della fondazione del Gruppo Loccioni, crea “Play 40”, il gioco che attraverso parole e immagini facilita i processi di brainstorming stimolando la nascita di nuove idee: un altro tool, strumento visual, a supporto delle attività di impresa e in sintonia con la rigenerata filosofia aziendale.
Il Gioco è una cosa da adulti: Da Play Factory a Playfactory il passo è ‘breve’
Isao Hosoe ha contribuito a tracciare il percorso, fermamente convinto che fosse vitale incentivare e diffondere una diversa cultura del lavoro basata sulla rivalutazione del gioco, elevandolo a ispiratore di creatività, innovazione, crescita.
Perché l’adulto, spesso, a differenza del bambino si ritaglia poche occasioni di gioco e, forse anche per questo, con il passare degli anni tende a esercitare meno, quasi a smarrire, le sue abilità nell’essere recettivo alla scoperta, nell’accoglierla, nel vivere una vita pienamente creativa, nella quale possa ‘continuare a muoversi’ alla ricerca del proprio giocoso equilibrio.
Come suggerisce Lucia Berdini, play coach, fondatrice del progetto Playfactory e co-fondatrice del Manifesto del Gioco, il gioco è una cosa seria, anzi tremendamente seria, e giocare dona senso alle relazioni e aiuta a trovare soluzioni efficaci, assumendo un ruolo significativo anche nel workplace.
‘Ascoltiamo’ con attenzione le preziose riflessioni di Lucia…
“Quasi tutti gli animali giocano e l’uomo, tra questi, è quello che gioca più di tutti. Giocare corrisponde a un bisogno biologico primario, un istinto innato che ci permette di sviluppare delle competenze relazionali, fisiche ed emotive in un ambiente protetto. Quando cresciamo il bisogno di giocare si caratterizza con forme differenti: lo sport, il teatro, la danza, il canto, la cultura stessa, corrispondono a dei modi di giocare, come efficacemente descritto da Johan Huizinga. Ognuno incarna un proprio stile ed è fonte di significativo benessere nutrire questi speciali ‘accordi musicali’ dell’animo umano, non veicolati da un fine, ma che trovano senso nel processo stesso. Molti di noi lo dimenticano e vivono una vita in perenne frenesia, ossessionata dalla costante ricerca della performance e spesso scandita dalla playphobia: il gioco è una perdita di tempo ed è per persone poco serie. E così la paura di apparire fragili e naturalmente umani ci fa perdere la meraviglia di andare ancora una volta sull’altalena. La prima rivoluzione industriale e il retaggio protestante hanno avuto un ruolo importante nell’affermazione della visione meccanicistica del lavoro: i dipendenti sono ingranaggi, bisogna essere silenziosi e veloci e ogni allegria è messa al bando, ‘quasi’ punita. Oggi questo approccio obsoleto sta cambiando e, nei modelli descritti da Frederic Laloux, le organizzazioni che vanno verso una logica eco-sistemica, praticano davvero i valori di cui si fanno promotrici e mettono al centro l’umano. In questi contesti organizzativi i temi del gioco, del divertimento e della leggerezza stanno acquistando il posto di rilievo che meritano. È così che lentamente si trasformano gli spazi e gli uffici diventano luoghi di incontro, di relazione, con dei loro genius loci. Così oggi negli ambienti di lavoro ci si può anche divertire e si possono celebrare dei traguardi raggiunti insieme al proprio team: è possibile ridere e tornare a giocare. Siamo pronti per una rivoluzione della cultura aziendale, perché giocare (soprattutto analogicamente) è una tecnologia sociale in grado di portare ai massimi livelli motivazione, cooperazione e creatività – in poche parole ci fa passare senza sforzo dalla modalità reactive (attacco o fuga) alla responsive (equilibrio) e ci permette di fiorire come individui. Questo fa sì che i risultati che si raggiungono, individualmente e collettivamente, superino le aspettative. La chimica scatenata dal gioco è molto simile a quella della felicità. Quando giochiamo entriamo naturalmente in connessione con gli altri, abbassiamo le barriere difensive, nutriamo il senso di appartenenza al gruppo e ritroviamo fiducia negli altri. Giocare, in ogni contesto sociale e organizzativo, dona senso alle relazioni e ci aiuta a trovare delle soluzioni efficaci, creative e sostenibili in un futuro che emerge in tutta la sua complessità”.
Play 40: strategie di gioco
Giocare con le idee
Due mazzi ciascuno composto da 40 carte: le carte del primo mazzo comprendono sul dorso una parola chiave e sulla faccia un’immagine; le altre 40 presentano le stesse parole chiave e un breve commento narrativo che ‘completa’ il riferimento evocativo alle immagini: un suggerimento, un approfondimento, una prospettiva da esplorare. In più ci sono anche alcune carte bianche. Rappresentano carte da gioco, ma il gioco è differente da quelli tradizionali del mondo occidentale: non è fondato sulla razionalità, sul calcolo o sul rischio. Consiste in un gioco di associazioni tra immagini, parole e concetti. Questo strumento serve per giocare con le idee e per farne nascere di nuove.
La conoscenza è al centro del gioco: strategie orientali
La strategia alla base di Play 40 proviene dall’Estremo Oriente: da un gioco tradizionale giapponese chiamato karuta (che deriva dalla parola carta, presa in prestito nel XVII secolo dai mercanti portoghesi). Karuta si gioca con due mazzi di carte: nel primo ciascuna carta contiene il testo completo di una breve poesia, nel secondo ogni carta ne reca solo i versi finali. Il primo mazzo è gestito da chi guida il gioco, mentre le carte del secondo mazzo sono tutte visibili su un piano. Chi guida il gioco inizia a leggere i versi di una carta; chi per primo tra gli altri giocatori riconosce la poesia afferra la carta con gli ultimi versi. Vince chi conquista più carte perché conosce meglio le poesie ed è maggiormente reattivo nel muoversi. Contano la conoscenza e la prontezza nell’associare le parole, cioè le idee. Nel processo di gioco nascono interessi reciproci, si scoprono affinità o differenze di gusti, si creano rapporti tra i giocatori: dal gioco nasce una comunità. Oltre alla versione di base con le poesie (uta-karuta), altre ‘espansioni’ del gioco associano alle parole immagini mitologiche (obake-karuta), proverbi, immagini di fiori. Di volta in volta l’associazione delle carte fa entrare nel gioco la conoscenza dei caratteri dell’alfabeto, della cultura tradizionale, delle immagini. Di ogni forma di espressione delle idee. Per questo la strategia karuta accetta la creazione di nuove regole, purché l’obiettivo sia sempre stimolare i giocatori ad associare prontamente un’idea a un’altra, attraverso parole e immagini. La stessa strategia è alla base di un metodo di ricerca messo a punto nel 1964 da uno scienziato giapponese, Jiro Kawakita: quando si raccolgono grandi quantità di dati non omogenei su un argomento (come nella gestione delle imprese succede con le informazioni sul mercato, sulle tecnologie, sui gusti del pubblico), occorre poi passare dalla quantità alla qualità. Occorre dare un senso ai dati, scoprire a quali conseguenze portano o potrebbero portare. Bisogna lavorare in gruppo. Il metodo KJ è applicato anche dai manager nelle aziende, in una versione chiamata diagrammi di affinità: le idee sulle caratteristiche e gli obiettivi di un progetto nate nel corso di un brainstorming sono raggruppate in un percorso per trovare tutti insieme le migliori soluzioni di sviluppo pratico. Dall’associazione delle idee nascono le ‘domande legittime’, come le definirebbe Heinz Von Foerster,
Esprimersi con spontaneità
Le Pecha kukha night consistono in incontri informali in cui architetti, designer, artisti presentano in pubblico un progetto o un’idea che sta loro a cuore, limitandosi a commentare 20 immagini da loro scelte, proiettate su uno schermo ciascuna per 20 secondi. L’essenziale è saper (in)seguire con le parole la velocità narrativa delle immagini. Le carte che compongono Play 40 possono essere utilizzate in questa modalità operativa per coniugare rapidità, spontaneità e idee: una forma ripensata di elevator pitch.
Proposte di gioco
Si gioca in tutti i modi i(ni)mmaginabili. Può vincere chi arriva ‘prima’, oppure chi realizza più punti; ma soprattutto vince chi ‘acquista’ più conoscenza: cioè tutti coloro che partecipano al gioco. Conviene procedere per gradi, iniziando con il gioco che gli ideatori hanno chiamato Alaya, e che serve a conoscere le carte e a prendere dimestichezza con le relazioni di senso tra parole e immagini. Poi andiamo avanti con Play, che favorisce lo scambio delle idee. ‘Infine’ cimentiamoci con Il trickster (RIF. Isao Hosoe): il trampolino verso l’associazione creativa delle idee. A questo punto i giochi saranno davvero aperti: potremo inventare noi stessi, come in ogni gioco, nuove modalità di gioco, costruendo il sistema di regole che ci sembrerà maggiormente efficace e rispondente alle nostre esigenze giocose. Anzi, poiché nuove regole favoriscono nuove idee, il gioco vero è quello di creare nuovi giochi con le idee.
Alaya: un mondo da conoscere
I due mazzi di carte rappresentano un universo di idee e di parole da esplorare. Le 40 carte con le immagini sono disposte sul tavolo. Un giocatore tiene l’altro mazzo e legge il testo della prima carta. Chi indica per primo la carta con l’immagine che corrisponde al testo (quella che riporta sull’altro lato la stessa parola) fa il punto e raccoglie la carta. ‘Vince’ chi raccoglie più carte.
Play: scambiarsi le idee
Il punto di partenza può non essere una carta, ma un articolo di giornale, una parola scritta su un foglio (o su una delle carte bianche), un’immagine, un oggetto che rappresenta l’idea centrale di tutto il gioco, il tema attorno cui si svilupperà il progetto creativo che si intende realizzare. Per esempio, se l’obiettivo consiste nel progettare una nuova lattina per le bibite, prendete una lattina e ponetela al centro del tavolo, in modo che la si possa osservare, toccare, girare, usare, annusare. Le 80 carte vengono mescolate insieme e distribuite e distribuite in numero uguale a ciascun giocatore. Uno dei giocatori viene incaricato di prendere nota, scrivendo su un foglio di carta, le idee che si formeranno nel corso del gioco. Gli altri giocatori, a turno, osservano, leggono, toccano, provano a usare l’oggetto che sta al centro del tavolo e poi gli accostano una o più delle loro carte, che ritengono collegate al tema centrale attraverso la parola, il testo o l’immagine e condividono le loro ragioni con l’intero gruppo. Ogni giocatore aggiunge progressivamente le proprie carte nella posizione che preferisce, creando percorsi di pensieri orizzontali, verticali, circolari; oppure gira una delle carte sul tavolo. Ogni volta che una carta viene deposta sul tavolo o girata, il giocatore che lo fa spiega ad alta voce le ragioni della propria scelta, reinterpretando l’insieme delle carte. Quando le carte sul tavolo appaiono sufficienti a delineare percorsi coerenti, i giocatori li discutono cercando di individuare una soluzione completa, utile a realizzare l’obiettivo del gioco: il progetto creativo che ci si propone. Il giocatore prescelto per registrare le idee conclude il gioco descrivendo il percorso complessivo nella sua composizione finale.
Il trickster: reagire all’imprevedibile
Le carte di un mazzo (preferibilmente quello con le immagini) vengono divise in numero uguale tra due o più giocatori. Il gioco può svolgersi di fronte a un gruppo di spettatori. Il primo giocatore pone una carta sul tavolo e descrive ciò che l’immagine gli suggerisce. Il secondo giocatore risponde con una delle sue carte, che ritiene collegata alle riflessioni del primo, e le sviluppa come preferisce. A turno ogni giocatore aggiunge una carta, fino a che non sono tutte esaurite. Per giocare in modo più “compennettivo” (competitivo-connettivo) ci si concentra sulla velocità delle dichiarazioni, magari scoprendo le carte nell’ordine in cui si trovavano nel mazzo, una dopo l’altra. Per giocare in modo maggiormente creativo, ci si concentra sulla scelta delle immagini, mirando più alla concatenazione coerente delle idee che alla rapidità. è essenziale non aver timore di esprimersi; in ogni caso, il divertimento nel rispondere colpo su colpo supera la potenziale apprensione. Gli spettatori scelgono il racconto più interessante.
Un giocoso bricoleur
Play 40 è insieme un gioco serio e una ricerca divertente: uno strumento per creare idee da idee, per progettare oggetti e rinnovare processi. Rispecchia un metodo applicato da Isao Hosoe nella sua pratica di progettista per favorire la creatività nei gruppi di lavoro; dalla libera associazione di determinate idee (quelle indicate nelle parole e nelle immagini) nascono indicazioni sulle strade (e sulle metamorfosi) da seguire per metterle in pratica: un luogo di lavoro che diventa un ‘terreno di gioco’ concretamento creativo.
I buoni progetti e i buoni prodotti vengono da lontano e dal lavoro di gruppo: nascono dalla capacità di attribuire un senso alle idee, lavorando (giocando) insieme. Giocare con Play 40 è un esercizio che favorisce l’ingresso in questa attitudine di esplorazione mentale: a comprendere quali idee contano, come l’una si lega all’altra, quali sono le più importanti e funzionali in relazione a ciò che si intende perseguire. Andando oltre i limiti della quantità e con un occhio (anzi due e più) alla qualità delle idee e delle loro relazioni che man mano da ‘invisibili’ si rendono visibili.
L’esperienza di chi esplora assomiglia a quella del bricoleur, che richiama la capacità di raccogliere e ricomporre elementi per ideare nuove soluzioni come viene rappresentato nella suggestiva metafora espressa da Claude Levi Strauss in La pensée sauvage (1962; trad. it. 1964)
«Colui che cammina nella foresta e riempie lo zaino di piccoli oggetti raccolti durante il percorso. Alla sera svuota il contenuto e osserva le combinazioni di oggetti nate casualmente nella caduta».
La casualità così declinata conferisce alla dimensione della ricerca il carattere di pervasività, poiché dichiara che ogni tempo e ogni spazio sono potenzialmente opportunità di sperimentazione per chi si propone di abitare il mondo da esploratore: una ricerca giocosa grazie anche alle infinite combinazioni che Play 40 favorisce.
E ora è tempo di spiccare lentamente il volo da terra, andando progressivamente sempre più in quota all’interno della mongolfiera della conoscenza per gettare, anzi, pro-gettare un sasso in uno specchio di acqua, perchè
«pro-gettare è come lanciare un sasso in uno specchio d’acqua, le onde si propagano in tutte le direzioni, verso il futuro e verso la persona che ha lanciato il sasso» (Isao Hosoe)
Ogni onda è un progetto di futuro, ogni progetto è un’onda.
L’immagine che si crea attraverso le parole evocative del ‘Trickster giapponese’ ricorda quella creata da Gianni Rodari, per raccontare la potenza pedagogica dei binomi fantastici.
“Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si alzano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere” (Rodari, Grammatica della Fantasia, p. 25).
Dall’alto allora scorgiamo i binomi fantastici che progressivamente si creano, binomi di senso come neuroni che contribuiscono a comporre nuove sinapsi, sinapsi compositive appunto, ma questa è un’altra giocosa ‘EpiStoria’.
Fonti
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https://www.zerounoweb.it/cio-innovation/metodologie/design-thinking-definizione-esempi/
Mario Cusmai, MTa® experiential learning facilitator, Teacher di Yoga della Risata® e LEGO® SERIOUS PLAY® facilitator, Dottore in Scienze dell’Educazione degli Adulti e Formazione Continua, appassionato di apprendimento esperienziale, giochi cooperativi, magia comica, di Cammini e trekking.